Sembra facile essere solidali…
di Jacopo Fo

















































































Per capire come si sia arrivati al progetto “Il teatro fa bene” devo fare un passo indietro e ripensare alle esperienze già vissute e a ciò che da queste ho capito. Quali siano infatti le difficoltà che si incontrano nell’intervenire in modo realmente positivo in mondi così diversi dal nostro lo avevamo infatti verificato durante la “missione umanitaria” in Burkina Faso, durata quattro anni e capitanata da Simone Canova, direttore di Cacao, il quotidiano delle buone notizie comiche.
A turno un gruppo di cooperanti si alternò nel villaggio di Diébougou, nel nord del paese. Non portavano idee preconfezionate ma cercavano di capire quali fossero le esigenze locali, mettendosi al servizio della popolazione. Nacque così una cooperativa informale, gestita dagli abitanti e sostenuta con il denaro raccolto alla Libera Università di Alcatraz e con lavoro dei cooperanti stessi.
Alcune azioni relativamente semplici vennero realizzate rapidamente e con successo, ad esempio la costruzione di un forno: questo permise di coinvolgere un collettivo di donne che ogni giorno facevano il pane per le loro famiglie e distribuivano la merenda ai bambini della locale scuola elementare. Venne anche finanziata la piantagione di centinaia di alberi e si costruirono inoltre due orti e un pozzo.
Tutti interventi che sicuramente contribuirono a migliorare le condizioni di vita. Dov’era dunque il problema? Soprattutto nel fatto che ci si scontrò anche con grandi resistenze culturali.
Le zucchine, per esempio: lì crescevano rigogliose e fruttifere ma Simone ci raccontò che era inutile coltivarle perché pochi le volevano mangiare. Mi chiesi come fosse possibile che la zucchina trifolata non seducesse i Burkinabé.
Un altro grosso ostacolo fu la diffusione di criteri più salutisti nell’architettura. Non che si volesse esportare i nostri modelli, ma pareva assurdo che le abitazioni tradizionali, dotate di freschi tetti di paglia e foglie, fossero abbandonate in favore di coperture di lamiera che trasformavano le case in forni solari.
Ma il tetto di lamiera richiedeva molta meno manutenzione ed era diventato uno status symbol…
Affrontammo la questione in “modo laterale”, realizzando un allevamento di polli, che è un’attività diffusa nella zona, perché il pollo è considerato un lusso e una prelibatezza. Avevamo notato che i polli locali erano magri in maniera pazzesca e ben presto capimmo perché fossero così emaciati: anche i pollai erano ricoperti di lamiera, quindi i polli vivevano in saune perenni che raggiungevano temperature da infarto. E ben presto si vide che quelli allevati nella nascente fattoria collettiva erano ben più grassi e vispi perché invece della lamiera di copertura era stato fissato un tetto di paglia e legno che li proteggeva dal sole: un’operazione relativamente semplice che non richiedeva denaro ma solo lavoro, ed era destinata al successo…
Eppure l’idea stentò parecchio a diffondersi.
Intervenendo in Burkina Faso ci rendemmo anche conto dell’importanza che i diversi gruppi di cooperanti comunicassero, collaborassero e si scambiassero esperienze (cosa davvero rara e difficile).
Ad Alcatraz arrivò uno svizzero che da anni collaborava con una onlus elvetica che interveniva proprio in Burkina. E fu grazie a lui che scoprimmo la realizzazione di un intervento colossale: il recupero di 3.500 ettari (35 milioni di metri quadrati) di terreno in via di desertificazione, grazie a una tecnologia inventata dal professor Venanzio Vallerani dell’Università di Perugia (cioè a uno sputo da Alcatraz).
Questo grazie a un sistema basato su un tipo innovativo di aratro che ara in profondità creando una striscia di buche a mezza luna: il terreno di risulta viene così rovesciato e forma una montagnetta a lato della buca e così i solchi sono orientati in modo tale che questo terreno ammonticchiato faccia ombra alla buca a mezza luna. In questo modo nel solco si raccoglie l’acqua piovana, ottenendo il persistere di un po’ di umidità, e nelle buche a mezza luna vengono seminate piante spinose, striscianti, particolarmente resistenti e capaci di spingere rapidamente le proprie radici in profondità.
Nel giro di un paio d’anni queste piante si sviluppano, arrivano a coprire lo spazio tra un solco e l’altro, e ombreggiando il terreno favoriscono la nascita di erbe spontanee: arrivano insetti, funghi e batteri, il terreno trattiene l’umidità e ritorna a essere fertile. A questo punto nella buca si seminano piante fruttifere e alberi.
Insomma, eravamo di fronte a un sistema estremamente efficiente che però era quasi sconosciuto nel mondo della cooperazione.
Pensammo che era arrivato il momento di interpellare le molte associazioni e cooperative per conoscere quali fossero le iniziative che si potevano realizzare e che avrebbero offerto i migliori risultati. Il nostro obiettivo era contribuire a diffondere buone pratiche sia tra le popolazioni locali che all’interno del mondo delle onlus, ma ben presto ci rendemmo conto che capire cosa fare e poi riuscire a farlo non sarebbe stata una passeggiata… Anche perché i nostri mezzi erano molto limitati.
Ma come capita spesso, a furia di tentare finisce che hai qualche colpo di fortuna. È una questione statistica più che di abilità.
Insistere è un modo eccellente per portare dalla tua parte il fato.