“Sarebbe dovuto tornare alla sua terra natale, per vedere se il tempo poteva ancora cullarlo”

(Mia Couto)

48-primo-stage-giorno-4-fame-zanni-gallery6La mia vita inizia con una fuga. Quella di mia madre.
Lei aspettò che mio padre uscisse, raccolse di tutta fretta le sue poche cose e fuggì da casa.
S’incamminò sul sentiero, i miei fratellini le trotterellavano a fianco e io, nella capulana, le dormivo addosso.

Fu una fuga d’amore per la vita.
Si ribellava a mio padre che voleva uccidermi.

Perché uccidere un bimbo di 2 mesi? Non l’ho mai saputo: per soldi, per fare una feticeria… mia madre non me l’ha mai detto!
Fino a 5 anni abitai a Intuchi, il villaggio della mamma.

Poi mi trasferii a Palma.
Alla mamma venne offerto da un suo zio, un coltivatore di una grande piantagione di cocco, un lavoro in un chiosco di vendita di sura. La mamma accettò: era povera e quando si è poveri non si hanno mai molte possibilità di scelta!

In quei tempi c’era la guerra.
Io allora ero piccolo ma per quello che ho visto e sentito non avrei mai pensato di poter vedere la pace, non avrei mai pensato che ci sarebbe stato un giorno in cui avrei visto le auto viaggiare tranquille sulle strade.
Durò 10 anni quella guerra.
Era una guerra fantasma. Non era una guerra d’esercito. Era una guerra di bande senza ordine, con tanti comandanti che sapevano solo seminare paura.
Ovunque c’era il fischio della morte, c’erano lamenti di vite che si spegnevano. Per noi quei rumori erano diventati una componente del paesaggio.
I bandidos piombavano su di noi all’improvviso, uccidevano, razziavano tutto ciò che c’era di commestibile e poi bruciavano le case.
La nostra preoccupazione era salvare non solo la vita ma anche il cibo, se non volevamo poi morire di fame.
I villaggi si svuotavano, i profughi riempivano le spiagge.

Quel giorno me lo ricordo bene. Erano le 6 della mattina.
Mamma stava preparando la papa. Io le ronzavo intorno come sempre quando preparava il cibo.
Le mitragliatrici arrivarono all’improvviso su di noi. Successe tutto così in fretta!
Ognuno scappò pensando solo a se stesso. Le madri persero i figli, i figli persero le madri.
Cominciai a correre sulle mie gambe di bimbo e… ratatatà… correvo… ratatatà… correvo sempre più veloce con il suono dei mitra nelle orecchie, senza guardarmi indietro. Correvo da solo verso il mare.
Ero già in acqua quando una mano vigorosa di uomo mi issò sulla barca.
Sul mare fummo al sicuro. I bandidos temevano l’acqua, loro erano uomini di terra.
Rimasi nascosto su un’isola, con tante altre persone sconosciute, per 3 giorni.
Quando fui accompagnato al villaggio l’abbraccio di mia madre fu dolce e io, stretto a lei, respirai il suo odore, quell’odore che mi era rimasto nel naso da quel giorno che mi salvò la vita.

Questi erano i tempi della guerra. Questi sono i ricordi di un bimbo che l’ha vissuta.

Arrivò il tempo della pace e insieme a lui arrivò anche lo zio materno dalla Germania, là dove era emigrato per sfuggire alla guerra e alla miseria del Mozambico di quegli anni.
Lui mi portò con sé a Pemba.

“Noi persone povere dobbiamo aspettare che Dio ci benedica e credere in Lui. Con lo zio potrai stare bene” mi disse la mamma salutandomi.
Per lo zio fu faticoso convivere con me che ero un ragazzino.
Non ci sapeva fare, non capiva che, per chi è ancora così giovane, è normale avere voglia di giocare, di divertirsi.
“Dormiglione… bandito…” era così che mi chiamava. Io con lui stavo sempre peggio!
Quando seppi che a Pemba abitava una mia zia, andai da lei.

Lei mi diede una grande lezione di vita!
Spesso, quando uscivo con gli amici e rientravo dopo l’orario del pranzo e della cena, non trovavo cibo per me.
“In questa casa c’è un orario per mangiare.  Se vuoi mangiare ora accendi il fuoco, prendi la farina, prepara il caril e quando è tutto pronto potrai mangiare” mi diceva.
Allora pensavo che fosse una punizione un po’ troppo dura ma poi crescendo ho capito che lei mi stava insegnando, attraverso i gesti semplici della preparazione del cibo, a cavarmela da solo, a non dipendere dagli altri.
“Tu potrai mangiare anche quando non ci sarò più”.  La frase che lei mi diceva ora la capisco nel suo significato reale.
Oggi io faccio la stessa cosa con mio figlio, il più grande!

adelino-kedo-grande-sottoAvevo allora circa 9 anni. Vedevo che i ragazzi della mia età andavano a scuola… ma a me nessuno disse mai “Adesso ti iscrivo a scuola”.
Lavoravo come porta-valigie. Ero sempre il primo a arrivare quando una grossa macchina si fermava.

Non ero contento ma mi dicevo “Quando diventerò grande quei miei parenti cattivi con me se la vedranno proprio con me”.

Ho sempre pensato che la vita con me non fosse generosa, che i miei parenti non mi sapessero apprezzare per quello che valevo, che non mi sapessero dare il bene che desideravo.

E poi io volevo imparare a scrivere il mio nome. Se non lasci un segno tuo, un segno sulla carta che resta lì quando non ci sei, sei destinato a disperderti nell’aria. Ed io volevo segnare il mio passaggio!
Alla scuola mi iscrisse la zia di Moeda, da cui andai quando decisi di allontanarmi dallo zio il più possibile.
Allora non volli tornare a casa dalla mamma. Lei viveva a Palma con il nuovo marito e io ero convinto che mi avesse ormai dimenticato. Non era più da lei la mia casa!
Alla scuola di Moeda ci andavo al mattino e al pomeriggio dovevo aiutare la zia nella sua machampa. Era faticoso lavorare il campo e inoltre non capivo perché nella machampa dovessi andarci io e le mie cugine no.
Sentivo di subire un’ingiustizia.

A 16 anni iniziai a guadagnare abbastanza soldi sfilando in discoteca. Ho un fisico magro e so indossare bene qualsiasi vestito. Come modello ero molto richiesto.
Nel frattempo la convivenza con mia zia e le mie cugine diventava sempre più aspra.
Un giorno, dopo avermi ingiustamente accusato di aver preso dei soldi da casa, la zia mi cacciò.
“Ma dove vado con tutta questa sofferenza, non ho più una famiglia”. “Ovunque ma non qui”   fu la sua  risposta.

Tornai a Pemba.
Di giorno giravo casa per casa cercando lavoro come domestico, di notte dormivo in strada, in mezzo alle bande dei ragazzi di rua.

Mi ritrovò infine mio zio. Per mettere fine a questo mio girovagare pensò che fosse buona cosa farmi fare la domanda di arruolamento nell’esercito.

Il mio nome però non uscì nella lista dei prescelti.
Allora mi dispiacque, oggi penso sia stata la mia fortuna: se fossi diventato militare non avrei mai incontrato il teatro e la musica.

Ritornai a Palma, dove c’era la casa della mamma. Avevo paura ad andare a casa sua, temevo un nuovo rifiuto. Ne avevo già avuti tanti!
La mamma invece fu felice di rivedermi.
Quanto tempo avevo perso girando per trovare una casa a Palma, vicino a chi con coraggio mi aveva salvato, trovai finalmente la mia casa!

Non volevo più fare lavori di fatica. Volevo lavorare seduto in un ufficio, volevo un lavoro che mi desse dignità.
“Se vuoi riuscire nella vita devi vivere con più furbizia” mi dissi un giorno.
E questa decisione guidò le mie scelte da quel giorno in poi.

Io ora ricopro ruoli che richiederebbero un livello di scuola superiore al mio.

Adesso faccio teatro e musica, i miei due amori.
Il teatro è il mondo del rispetto delle regole, degli orari imposti dagli altri. La musica è il mio mondo libero, la posso fare ovunque, quando voglio io, sono io che decido i tempi.

Questa conquista è il frutto della mia forte ambizione, ma se ci sono riuscito è anche grazie all’aiuto di Dio.

E Dio mi ha benedetto anche adesso!

Nel maggio di quest’anno era finito un importante progetto governativo per il quale lavoravo. Ero senza lavoro.
Un giorno mi arriva una chiamata: “Vieni a fare delle prove, i bianchi dell’Eni cercano attori per un progetto sulla salute” … ed eccomi qui, ad Alcatraz in Italia, a raccontarvi la mia storia…chi l’avrebbe mai detto!!!

Adesso devo andare, iniziano le prove dello spettacolo.

Non vi ho parlato di Mister Kedo… sarà per la prossima volta.

Obrigado
Adelino