“Forse il tempo si misura in parole. Le parole che si dicono. E quelle che non si dicono”
(Dulce Chacòn)
Mesa, il villaggio dove sono nata, era un luogo molto semplice, un pugno di case lontane da tutto.
Il giorno in cui decisi di venire al mondo, fu impossibile trovare un mezzo di trasporto per accompagnare la mia mamma all’ospedale.
Nacqui perciò in casa. Ma non andò tutto bene! Mia madre cominciò a perdere molto sangue. Passarono tre giorni prima di poterla accompagnare in ospedale.
Quando ci arrivò stava molto male, però lì furono bravi e riuscirono a darle tutto il sangue che aveva perso… e la vita ricominciò.
Io ringrazio ogni giorno mia madre per il dono che mi ha fatto della vita; ma vorrei sapere perché, in certi posti, lo spazio tra la vita e la morte dipende solo dall’avere o non avere un mezzo di trasporto a disposizione!
A 3 anni arrivai a Mocimboa da Praia, dove papà aveva trovato un lavoro fisso. La famiglia si allargò: dopo di me nascono altri 5 bambini.
È da allora che comincio ad avere ricordi miei.
Della mia infanzia mi ricordo soprattutto il tempo dei giochi, quelli fatti all’aperto con gli altri bambini. I giochi con la corda, i canti e le danze, i piccoli spettacoli che organizzavamo noi bambine appena scendeva il buio. La mamma e le nostre vicine erano il nostro pubblico.
E poi c’era il gioco che fanno tutte le bambine del mondo: il gioco delle bambole.
Le mie erano di pezza, me le cuciva la mia mamma con i ritagli di stoffa dei vestiti che confezionava per i suoi clienti. Imparai anch’io a farle e le cucivo per le mie amiche
La zona scura, in questi miei ricordi, è la lotta quotidiana con il mio fratellino più piccolo. Ancora adesso non so perché ma, nonostante fossi più grande e quindi mi avrebbe dovuto portare rispetto, mi picchiava sempre, con lui erano continui litigi. Ero più debole di lui e la mia unica difesa era andare piangente dalla mamma. I rimproveri di mia madre però, anziché rabbonirlo, lo rendevano ancora di più malandro nei miei confronti.
A 7 anni comincio a studiare. Sono stata fortunata, il mio percorso scolastico è stato regolare e , nel Mozambico di quegli anni, questo non era dato a tutti i bambini.
Mi piaceva andare a scuola e studiare, ma non amavo certo alcuni professori.
Erano terribili, ci picchiavano molto, usavano un sottile bastone di legno che per loro era un fondamentale strumento di lavoro. Io, quando le botte mi diventavano insopportabili, scappavo a casa.
Mi ricordo la mia insegnante della Quinta classe. Lei mi puniva ogni giorno perché arrivavo in ritardo. Quell’anno avevo un piede malato che mi costringeva a camminare molto lentamente. Lei tuttavia non voleva sentir ragioni e ogni volta mi picchiava e mi castigava mettendomi nel gruppo dei ritardatari. Una vera ingiustizia! Qual era la mia colpa?
L’ho incontrata per strada poco tempo fa e le ho ricordato questo episodio e tutto quello che lei ha saputo dirmi, ridendo, è stato “Ma io avevo ragione!”
Dopo la settima classe ho proseguito gli studi in un’altra città, alla scuola secondaria di Mariri.
I primi tempi vivevo in casa con lo zio di mia madre. Con noi viveva anche una sua nipote che, rivendicando un grado di parentela con lo zio più stretto del mio, mi rendeva la vita impossibile.
Preferii trasferirmi in collegio. Lì son stati 4 anni sereni: studiavo, facevo teatro e molto sport. Forse si fa un po’ fatica a immaginare che io, così calma e tranquilla, sia stata una brava giocatrice di calcetto a 11. Ebbene sì, il campo di calcio era il palcoscenico dove esibivo tutta la mia grinta e la mia determinazione.
Ma in questi anni ci fu anche il primo grande dolore della mia vita: la morte della mia nonna. Con lei avevo passato tutti i giorni della mia vacanze, avvolta nel suo dolce affetto. La notizia della sua morte mi colse di sorpresa e mi fece cadere in una profonda tristezza.
Intanto il tempo passava, l’età del collegio era finita. Mi trasferii a Pemba per continuare gli studi e lì… incontrai quello che credevo un eterno amore che però tanto eterno non fu.
Ben presto rimasi incinta e lui, alla notizia, non seppe far altro che spaventarsi e scappare.
Dovetti interrompere la scuola perché, allora, non si accettavano in classe le ragazze incinte.
A casa non trovai il coraggio di dire la verità e ogni giorno erano sempre più grosse le bugie che inventavo per spiegare la mia assenza da scuola.
Intanto il mio corpo diventava sempre più rotondo e le magliette che indossavo, sempre più grandi, non riuscivano a coprire tanta abbondanza.
“Ana come mai il tuo seno è sempre più grosso?” Chiedeva mamma. “Non lo so mamma, me lo chiedo anch’io”. Rispondevo.
Perché negavo tutto? Cosa speravo che accadesse? Prima o poi la verità sarebbe stata evidente! Ma io ero immersa nel fiume in piena del mio spavento e mi lasciavo trasportare dalla corrente!
E poi confessai la verità… successe un finimondo, né aiutò a calmare le acque la risposta che diedi a mio padre, che chiedeva con insistenza chi fosse il padre del bambino: “Non lo so, non mi ricordo!”
Ma poi tutto si sistemò …. e nacque Dudu, il mio bimbo. Era il 2005.
Ripresi la scuola, mi diplomai, mi trasferii a Palma dove iniziai a lavorare in uno studio notarile.
Un giorno incontrai veramente l’amore della mia vita, un amore grande suggellato dal tatuaggio dei nostri nomi sui nostri piedi.
La mia vita è tranquilla, felice insieme al mio compagno e ai miei 3 figli: Dudu, Alima e Laura.
Sono una donna calma, per niente incline a repentini moti di rabbia… anzi diciamo pure che non mi arrabbio mai, ma proprio mai.
Qui ad Alcatraz mama Tiziana mi chiama “la donna misteriosa”, chi sa perché!
Ah, mi sono dimenticata di dirvi che in valigia, per venire in Italia, ho messo la mia capulana preferita, quella con il viso di Josina Machel, la guerrigliera, la nostra eroina della guerra di Indipendenza del Mozambico
Che sia forse nascosto qui il mio lato misterioso?
Obrigada!
Anabela
