“Voglio restare testimone anche quando non esisterà più un solo essere umano che mi chiederà di rendere testimonianza.”

(Christa Wolf)

68-9-ultime-prove-2Se mi chiedete di raccontare la mia infanzia sorrido perché la prima persona a cui penso è mia nonna, con la quale ho vissuto da piccola.

È un ricordo che mi riempie di buono la bocca: mia nonna è il dolce che mi faceva con lo zucchero e la masciamba che prima raccoglieva nel campo, poi macinava e poi cuoceva.

Era una donna forte perché le donne che lavorano nei campi sono donne forti, che non hanno paura della fatica.

Lei era sempre la prima a svegliarsi e ad andare a prendere l’acqua al pozzo e continuò a farlo anche quando divenne vecchia.

Era a lei che ci affidavamo noi bambini a cui è stato dato di vivere i giorni della guerra.

La guerra non è solo questione di soldati, di armi.

Bisogna viverla la guerra per sapere cosa accade a tutto il resto quando il rumore delle armi ti riempie le orecchie, quando gli occhi si spalancano spaventati a ogni rumore per vedere quel “più in là” che ti può salvare da chi arriva all’improvviso e porta la morte.

Le donne, in guerra, questo lo conoscono bene perché ogni giorno lottano per salvare dal disastro brandelli di vita, per mantenere in piedi il loro mondo che frana.

Sono loro, con i gesti quotidiani, che difendono se stesse e la famiglia dall’abisso, cercano di fare sì che ogni cosa continui ad avere un senso.

Noi abitavamo in un sobborgo di Mapapa.

I bandidos attaccavano prima la cittadina, poi arrivavano anche da noi. A volte non si vedevano per giorni, poi improvvisamente tornavano a razziare cose e persone.

Era lei, la nonna, che ogni giorno preparava il cibo, lo metteva nei recipienti di ferro e poi ci chiamava: “Forza, mettiamo tutto a posto e andiamo!” ci diceva. Ognuno di noi prendeva la capulana con il cibo e la seguiva nel bosco.

Ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno alle tre del pomeriggio tutto il villaggio si trasferiva nel bosco. Quel luogo era diventato un accampamento e noi stavamo lì, come bestioline nascoste, sperando che i bandidos non ci raggiungessero.

Non ho mai visto nessuno morire ma di vicini morti ne ho sentito spesso parlare.

Io allora ero piccola ma ho conservato la consapevolezza di essere sfuggita alla morte. È molto triste dirlo ma anche questo fa parte della mia infanzia.

Le mie zie furono rapite dai bandidos. Una riuscì a sfuggire dal loro campo dopo 3 mesi di prigionia.

Tornò a casa ma la morte era già dentro di lei e, poco dopo, se la prese. Lei è una morta di guerra.

I bandidos si servivano delle donne nelle loro basi, per questo le donne venivano fatte sopravvivere ai loro massacri.

“…Le donne dovevano lavorare per loro… soprattutto come donne”.
Anche un’altra mia zia fu rapita. Rimase prigioniera al campo per tanto tempo finché anche lei riuscì a fuggire.

Andò in Sud Africa e non fece più ritorno a casa, in Mozambico. Lei è un’esule di guerra.

La mia mamma mi parlava sempre di lei. Io l’ho incontrata per la prima volta l’anno scorso. Che emozione!

Riempimmo con un fiume di parole quella distanza fatta di tempo… ma fu anche un incontro pieno di silenzi, senza quelle parole che non volevano essere nè dette né sentite.

Spesso il destino segue vie che a prima vista sembrano misteriose.

Adesso, mentre mi sto raccontando, penso che la via del mio destino poteva essere solo quella che portava al teatro.

Io porto in scena spettacoli contro la violenza sulle donne, per la parità di genere. È una lotta non solo per la dignità delle donne ma per tutto il genere umano.

Noi donne siamo ribelli per natura contro l’assurdità della sopraffazione, contro l’arroganza e la violenza del potere degli uomini.

Quello che metto in scena è un messaggio di rispetto perché solo se impariamo a rispettarci possiamo vivere in pace.

Quando faccio teatro per le donne, tutte le mie debolezze si trasformano in forza, in una volontà interiore di cambiamento.

Verso i 10 anni tornai a Maputo dalla mamma e crebbi rapidamente, forse troppo rapidamente.

Il tempo era una pietra che rotolava veloce.

Mi iscrissi a scuola, ricominciai dalla Prima classe perché la scuola di Mapapa non aveva lasciato grandi tracce in me. Intanto aiutavo anche la mamma nel suo lavoro.
La mattina a scuola e al pomeriggio al mercato, in centro città, dove la mamma aveva un banco di alimentari. Il ciclo si ripeteva ogni giorno.

Nel 1998 incontrai mio padre per la prima e ultima volta.

È mia madre quella che mi ha insegnato tutto della vita. Ancora oggi se riesco a trovare da mangiare, da lavorare, se trovo la forza per educare i miei figli e per costruire giorno per giorno il rapporto con mio marito, devo dire grazie a lei.

A 17 anni restai incinta di Tomas, il mio figlio rapper.

Il padre non si volle assumere la responsabilità della “pancia”. Lui voleva me ma non la mia pancia e sparì.

Lasciai la scuola e continuai il lavoro.

Stetti al banco del mercato fino al giorno prima del parto e con i soldi guadagnati comprai i vestitini per il mio bimbo e la capulana per trasportarlo.

Dopo la nascita di Tomas ripresi la scuola ma ripresi anche a lavorare: la mia unica preoccupazione era quella di prendermi cura di lui e di avere il denaro che servisse alle sue necessità.

Tomas aveva un anno quando io, per caso, incontrai il Teatro Luarte.

Quel giorno la compagnia teatrale recitava in una discoteca vicino a casa mia. Decisi di andarci e “…Oh!!!” rimansi frastornata da quel troppo bello.

Finito lo spettacolo andai da un mio amico attore. “Come devo fare per recitare?” “Bisogna allenarsi. Vieni al nostro centro, ci alleniamo ogni martedì alle 18” “Ma alle sei io sono a scuola!” “Beh, dipende da te” .

Saltai la scuola ed entrai nel teatro e il teatro mi entrò dentro.

Adesso voglio raccontarvi un episodio che non ho mai raccontato a nessuno… E’ passato così tanto tempo che ormai per quella colpa, se mai colpa poi ci fu, non posso più essere punita, neppure da voi che mi leggete.

La casa dove abitavamo si allagava sempre nel periodo delle piogge. Vedevo la mamma che cucinava la sopa, che poi vendeva, con i piedi nell’acqua.

Dormivamo circondati dall’acqua.

Per ripararmi dall’acqua io dormivo, incinta con la pancia ormai grossa, sul tavolo della cucina!

Il mio sogno più grande era comprare un terreno su cui costruire una casa alla mamma, un posto dove potesse stare sempre all’asciutto.

Ma non è facile comprare un terreno, ci vuole “molto, molto dinero” e il mio desiderio restava sempre solo un sogno.

Nel 2002 arrivano a Maputo molti cinesi e io trovo lavoro nel negozio di uno di loro.

Un giorno, quel giorno, mentre spazzo, trovo a terra un pacchetto. Lo apro e “Uhauhau… quanti soldi, tanti soldi!!!” … Mi batte ancora forte il cuore come allora, mentre racconto.

“Ma sarà che il mio capo non si è accorto… Ma sarà che… Ma sarà che…”.

Troppi pensieri si affollano nella mia testa per poi sparire uno dopo l’altro. Uno solo rimane “Posso comprare il terreno alla mamma!”

Nascondo i soldi sulla pancia, là dove era nata una vita, e corro a casa.

Ma in tutte le storie, specie quelle che sembrano belle, c’è sempre un “ma”.

Quando ritorno al negozio mi accorgo subito che quello non è un giorno come gli altri.

Il padrone, dopo averci fatto entrare, chiude il negozio. Si era accorto che i soldi non c’erano più!

Confesso la mia colpa e restituisco i soldi. Lui mi perdona. Il terreno vola via e il sogno continua a restare un sogno.

È stata mia sorella a comprare il terreno a mia mamma. Io sono riuscita, con dei sacrifici, a comprare un terreno vicino al suo.

Mi ha fatto bene raccontarmi, mi ha fatto guardare dentro di me. Mi sono riconosciuta una forza interiore che mi ha permesso di fare delle scelte che hanno saputo risarcire i dolori provati.

Quando rivedrò mia zia le chiederò di raccontarmela tutta la sua storia… adesso sono pronta!

È arrivato il momento di chiudere le ferite e convivere con le cicatrici.

Questa storia è dedicata a mia madre Elisa Chambal, una grande donna che mi ha dato la forza di affrontare la vita.
Pace alla sua anima, che riposi in pace!

Obrigada

Arlete