“La Storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”
(Hannah Arendt)
La mia storia ha 33 anni.
Sono mozambicano, nato a Maputo, cresciuto nel Barrio dell’Aeroporto.
Nel Barrio c’era tutto: l’asilo, la scuola, la chiesa, la mia casa.
Il mondo dei miei primi 15 anni iniziava e finiva lì.
“Protezione” è la parola chiave del racconto di quegli anni, la copertina calda che li avvolge.
E’ la protezione di mia madre e, soprattutto, quella di mio padre.
I loro gesti di affetto e il modo in cui loro si sono occupati di noi sono stati per me il solido ancoraggio alla realtà e all’amore, campo fecondo per ogni crescita.
In casa eravamo quattro figli: due fratelli più grandi di me, io e la mia sorella gemella.
Papà si prendeva cura di noi: ci accompagnava a scuola, ci veniva a prendere, ci controllava i compiti (siamo sempre stati promossi!) e soprattutto si sforzava di darci una prospettiva per il futuro.
In casa c’erano delle regole severe e non negoziabili.
Alle cinque del pomeriggio, qualunque giorno fosse e qualunque festività fosse, dovevamo essere tutti a casa.
Mi ricordo ancora lo sguardo avido e voglioso con cui guardavo giocare i miei coetanei a jaro-prins. Avrei voluto anche io sfidarli, dimostrare che anch’io sarei stato capace di saltare tutti i copertoni al primo salto.
Mi dovevo accontentare di guardare quel mondo dalla finestra!
In casa eravamo quattro bimbi e ci divertivamo fra di noi e, come tutti i bambini, eravamo un po’ malandrini e ciascuno faceva le sue bricconate a danno degli altri.
Spesso nel Barrio, in quegli anni, improvvisamente mancava la corrente elettrica.
Se questo succedeva quando stavamo cenando, oltre alla luce spariva anche qualche pezzo succoso di carne.
Uno di noi, approfittando del buio pesto, se lo portava con mano lesta alla bocca. Non si scopriva mai chi fosse il malandrino… e a papà e a mamma forse non interessava neppure scoprirlo.
E poi venne il tempo in cui tutto cambiò…
Papà perse il lavoro, mamma iniziò a lavorare fuori casa, andava a vendere al mercato.
Papà si inventò un nuovo lavoro: cominciò a fare braccialetti, collane, orecchini.
Noi tutti lo aiutavamo, sono cresciuto fra i braccialetti e ancora adesso mi piace portarli.
In casa si andavano a delineare i ruoli che ognuno di noi avrebbe dovuto ricoprire secondo la visione paterna.
In questo “gioco” il più sfortunato fu il mio fratello maggiore.
Lui era un ragazzo calmo, riflessivo, le cui decisioni arrivavano dopo lunghi ripensamenti e a volte non arrivavano affatto.
Era lui che subiva i continui rimbrotti di mio padre che non accettava questo comportamento, non lo riteneva consono a chi era primogenito.
Del resto che poteva fare mio fratello? Uno la stoffa decisionista ce l’ha o non ce l’ha… e lui non ce l’aveva.
Io cominciai a riempire gli spazi vuoti lasciati da lui.
Programmavo, agivo, dicevo sempre la mia su ciò che sarebbe stato giusto fare o non fare.
Volevo conquistare la stima di mio padre.
Tuttavia avevo la netta impressione che questa mia effervescenza lo mettesse in difficoltà e che, in fin dei conti, non ero come lui mi avrebbe voluto.
Qualcuno ha detto che la nostra vita è un pendolo che oscilla tra il bisogno di attaccamento e il bisogno di esplorazione.
Ormai avevo 15 anni: l’asticella del mio pendolo era stata ferma per troppo tempo sull’attaccamento e fu allora che si spostò velocemente sul lato opposto.
Il potere economico della mia famiglia si era indebolito. Papà iniziò a viaggiare per poter vendere i suoi manufatti.
Io dovevo continuare a vivere senza più il suo controllo e la mia vita ebbe una svolta.
Vivevo come tutto il mondo del Barrio e come tutti i ragazzi della mia età.
Cominciai a giocare a calcio, ci giocai per 5 anni e macinai chilometri a piedi per raggiungere il campo.
Imparai lo shangana e lo parlavo con i miei amici.
Mi iscrissi alla scuola tecnica, la più difficile, ma non studiavo; venni bocciato due volte e quindi espulso.
Mi misi a vendere scarpe per strada per guadagnare soldi.
Vivevo la città, questa mia bella città nata dal mare, di notte: la città di notte palpita, vive su e giù a suon di musica.
Ma è quando la città, ormai stanca, si addormenta che mi piace di più percorrerla. Le case, le vie mi raccontano di gesti, di desideri, di sofferenze e di ricordi.
La città diventa scrigno di storie presenti, passate e future. Diventa un romanzo.
Nelle strade addormentate respiravo un senso di libertà, mi sentivo al centro dell’universo.
Si vede la realtà come la si vuol vedere e io volevo vederla con gli occhi della disubbidienza.
Quel “Tu Devi” che veniva da fuori di me mi impediva di vedere ciò che era giusto o sbagliato,
Quei criteri di “si fa” o “non si fa” più che corrispondere a criteri di moralità o immoralità mi sembrava che fossero solo criteri di conformità o non conformità.
Mi dissi che sarebbe stato meglio per me essere in contrasto con tutto il mondo piuttosto che con me stesso.
Nel Barrio dove vivevo il confine tra legalità e illegalità era labile, troppo labile e io una norma me la dovevo pur dare per non passare quel confine.
“Non farò mai nulla che possa recare male a qualcuno” mi dissi, e continuai a perseguire i miei sogni.
La mia famiglia mi fu sempre vicino, ma la sorpresa più grande fu il mio fratello maggiore.
Lui così schivo, che camminava nella vita come se fosse su un terreno paludoso e si muoveva sempre con cautela, divenne il mio protettore e il mio più grande sostenitore.
Condivideva i miei sogni, mi invitava a non abbandonarli.
Certo, per tutti loro non è stato facile accettare Mambucho con le treccine e l’orecchino ma hanno sempre avuto fiducia in me. Loro sapevano che io non rubavo, non facevo del male e a loro questo bastava.
Oggi io sono diventato ciò che non avrebbero mai immaginato, io ora “sono diventato quella cosa che alla mia famiglia piace molto, anche se con me non sa mai che cosa succederà domani”.
Ma continuiamo il mio racconto.
Mi iscrissi alla scuola di Formazione Sociale.
Quando sono entrato a scuola ero un moluene con lunghe treccine.
Impensabile tutto ciò per il tempo e per il luogo.
Subito i professori dissero:” Non preoccupiamoci, se le taglierà tra una settimana”
Dopo una settimana “Non preoccupiamoci” dissero “Se le taglierà sicuramente tra un mese”
“Prima o poi se le taglierà” dissero dopo un mese.
Io ero anche i miei capelli e non me li tagliai per tutto il tempo della scuola.
Attraverso la scuola partecipai a progetti sociali per i giovani, per le donne, per i gruppi più emarginati.
E’ stata un’esperienza importante che mi ha permesso di conoscere e di capire quel cosmo pieno di vita, di sofferenza, di contraddizioni ma anche di speranza che era ed è la mia città… e, come giovane, non potevo restare indifferente.
Intanto ero arrivato ad avere 24 anni e scoprii che stavo per diventare padre.
Mi girava la testa!! Ero felice di cullarmi all’idea che avrei avuto un figlio ma mi opprimeva un forte senso di inadeguatezza.
“Ma come è possibile che proprio tu, che fai educazione sociale, che dici ai ragazzi di non mettere incinta la loro compagna, ti sei comportato come la maggior parte di loro” mi rimproveravo.
Fu un bel momento quando, nel mezzo di questo vortice di emozioni e di pensieri, arrivai alla conclusione che non potevo essere “così perfetto” come mio padre mi voleva.
“L’imperfezione fa parte dell’umano” mi dissi allora e ora mi dico “Evviva l’imperfezione perché è grazie a lei se ora posso amare la mia bellissima bambina”
* * *
Quelli furono anche gli anni in cui iniziò il Teatro Luarte.
Nelson ed io avevamo fondato l’Accademia Luarte dove si faceva musica, danza e un poco di recitazione.
Si iniziò poi, così quasi per caso, a recitare dei pezzi teatrali destabilizzanti rispetto al contesto di quegli anni, testi che affrontavano le difficoltà del vivere.
Allora in Mozambico il teatro era politico, l’influenza del Frelimo era forte e pervasiva anche in campo culturale.
Di questo sarebbe stato bene tenerne conto!
Ma a noi la politica non interessava.
Non eravamo contro il Frelimo, semplicemente esploravamo altre strade, ci interessava la relazione con gli altri, era lì che portavamo le nostre sfide.
“Questi ragazzi chi sono? Da dove vengono? Dove lo trovano il coraggio di dire queste cose?” Dicevano di noi.
Noi non avevamo paura perché eravamo guidati da una forte curiosità e protetti dall’innocenza dei nostri giovani anni.
Siamo andati avanti malgrado queste voci, ci abbiamo preso gusto e con passione abbiamo creato la grande famiglia del Teatro Luarte e ci siamo fatti conoscere e apprezzare.
Ecco più o meno questa è la mia storia confusa…il domani lo sto ancora costruendo sempre con questo desiderio di rompere gli schemi dati una volta per tutte, con la voglia di sfidare il banale ma sempre con un piede ben posato a terra.
Vorrei anche non perdere mai la capacità di accostarmi agli altri con gli occhi dell’amore e del rispetto che, come ho già detto, è l’eredità feconda lasciatami dalla mia famiglia… questa è la sfida che più mi preme.
E’ stato bello raccontarmi perché quando ti racconti…prima c’è una storia…poi c’è un’altra storia…e alla fine tutto diventa ”la Mia Storia”.
Mi sta venendo un dubbio: ma io sono qui ad Alcatraz per seguire un progetto teatrale o per fare terapia?
Obrigado
Felix “Mambucho”
