“Aveva solo un modo per stare meglio: raccontare la propria storia.
Dissi che l’avrei ascoltata, per tutto il tempo necessario…
Allora, mi raccontò la sua storia”

(Mia Couto)

SAFINA_intIl mio è il nome di una barca. Una barca grande ormeggiata nel porto di Palma.

Fu la zia a scegliere per me quel nome. Il nonno fece le sue pratiche antiche e disse che quello era il nome.

Nacqui velocemente, sulla strada, prima che mamma potesse giungere in ospedale.

Sono cresciuta con i nonni, a Kilundi, nel nord del Mozambico. Loro erano contadini e la loro machamba produceva molto cibo.
Non potevo stare con la mamma: il suo campo produceva troppo poco per poterci sfamare tutti.
Papà, un uomo buono, aveva il vizio del gioco: i soldi che vinceva poi li perdeva.
Con i nonni sono stata bene. La nonna piaceva a me e io piacevo a lei. Ma era soprattutto il nonno a prendersi cura di me, una bambina un po’ malaticcia.
Lui era un bravo curandeiro: veniva gente da lontano per farsi curare da lui.
Non voleva nessun soldo, solo chi era guarito poteva fargli poi un dono. E di doni ne arrivavano tanti in casa!

Quando ebbi 10 anni ritornai a casa, a Palma, da mamma. Iniziai a studiare il Corano.
Quel tempo me lo ricordo come il tempo della musica e delle danze.
Papà insegnava il Corano e la casa era piena di gente. C’erano sempre dei tamburi che suonavano e canzoni che si componevano sulle arie di famosi canti macua.
Formammo un folto gruppo musicale e cominciammo a portare spettacoli nelle feste dei villaggi.

Sono sempre stata timida e non ho mai avuto la stoffa per farla finita con la mia timidezza. Ma spesso chi è timido si riscatta esibendosi… e a me piaceva esibirmi!

Nel 2000 il nonno morì.
Eravamo nella machamba quando ci diedero la notizia. Lasciammo tutto il raccolto nel campo e partimmo subito per il suo funerale.
Dopo la sua morte, lo zio materno decise di portarmi con sé a Pemba.

Senza saperlo, iniziavo un viaggio che avrebbe annullato le certezze della mia infanzia!

Diventai la domestica di casa: mi prendevo cura del bimbo appena nato, imparavo a fare torte, a pulire la casa.
Fin qui tutto bene, quello che ho imparato allora a casa dello zio mi è servito nella vita.
Ma allo zio certi miei comportamenti giocosi e impertinenti, da ragazzina quale ero, non piacevano, lo indispettivano molto.

65-6-tanto-per-cambiare-gallery3Se volevo respirare aria, vedere le amiche, dovevo farlo di nascosto, quando lui non c’era.
La sua arroganza e prepotenza poteva impedirmi di entrare nel mondo, ma non poteva impedire al mondo di venire da me, di entrare in casa.

E in casa entrò Momad, il cugino della zia.

Lui sembrava nato per farmi passare tutte le paure, per gettare luce negli angoli bui, per spianare strade davanti a sé.
Eravamo giovani e anche belli e ci siamo innamorati e fidanzati.
Lo zio non ne fu per niente felice.
Chiamava Momad “Bandito” solo perché Momad beveva alcolici. Ma Momad faceva solo alla luce del sole ciò che gli altri facevano di nascosto.

Il giorno che mia madre arrivò da Palma per incontrare la famiglia di Momad ero felice. Il nostro matrimonio si sarebbe fatto, pensavo.

“No, non voglio” disse lo zio… e così fu!

Mi arrabbiai, piansi, mi disperai… ma a che serviva questa disperazione?

Era lui, l’uomo della famiglia, che decideva per tutti… che decideva quella che sarebbe stata la mia vita.

Mise così, prendendosi tutti i permessi, un timbro sul mio futuro.

Non c’è bisogno a volte di aprire bocca, di dire parole, basta toccare un punto della sofferenza e il dolore diventa così forte che provoca un nodo allo stomaco che non ti lascia più.
Mi sentivo umiliata, negata, dolente.
Mia madre mi salutò abbracciandomi: “Non posso fare niente contro la sua decisione. Lui è ricco, può tante cose. Sii felice”.

Momad partì per un’altra città e non l’ho più visto. Ma ogni tanto a lui ci penso.
Sono le occasioni perdute a cui ci aggrappiamo nella vita per non sprofondare nell’abisso e il campo dell’amore è il mio abisso.

La vicinanza dello zio mi era insopportabile.
Mi porto ancora dentro questa insofferenza, però devo anche riconoscere che è grazie a lui se a 15 anni iniziai la scuola.
Ho studiato con fatica, se avessi iniziato prima mi sarebbe stato tutto più facile, la mia testa sarebbe stata più fresca.

Un giorno decisi di lasciare la casa dello zio e cercai rifugio da mia sorella.
Passò un anno: andavo a scuola, uscivo con le amiche e cercai, come una gatta, di leccarmi quella ferita che continuava a restare aperta.

Lo zio ricomparve all’improvviso.
Lo trovai sulla porta di casa, non era solo, aveva con sé dei poliziotti.

Non urlai, non persi il controllo. Spaventata rimasi immobile, senza pensare. Non una lacrima, non un grido, era come se mi avessero spaccato il cuore in due con un’accetta.
Mi prese e mi restituì alla mia mamma: “Non sopporto più tua figlia, riprenditela”, disse.

Mi sono sentita niente più che un pacco, spedito senza il mittente.
Mi ero però liberata finalmente dello zio. Ritornai a Pemba, da mia sorella. Sapevo che da lei ero sempre accolta, siamo dello stesso sangue, figlie dello stesso padre.

Gli ultimi anni erano stati un poco tribolati e le offese subite sono come ossicini, non puoi mandarle giù come acqua, ma io avevo pur sempre meno di 20 anni .

67-8-perugia-e-dintorni-hdErano lontane le lacrime perché non mi avevano fatto sposare Momad. Loro erano ben custodite dentro di me, pronte a uscire se orecchie attente mi avessero ascoltato… però quello era il tempo di vivere!

Incontrai un ragazzo, presto restai incinta e andai a vivere con lui, a casa dei suoi genitori.

Non fu una buona decisione!
Benché fossi incinta, o forse proprio perché ero incinta, mi maltrattava spesso, la mia pancia non gli piaceva e di notte andava con altre donne.

I suoi genitori cominciarono a mormorare: “Che ce ne facciamo di lei? Perché non la rimandiamo dalla sua mamma?”

Per fortuna non ci fu bisogno di rispedirmi un’altra volta, come un pacco.

La mamma venne da me e mi riportò, con amore, a Palma.

Nacque Elsa, la mia prima fortuna.

Ero mamma e sentii il bisogno forte di ritrovare quella bimba felice che stava con la nonna.
Volevo mia nonna!

Subito dopo il parto misi Elsa nella mia capulana e mi misi in viaggio, a piedi, per casa di nonna.
Camminai per 7 ore senza fermarmi. Arrivai con i piedi gonfi e sanguinanti.

Nonna preparò dell’acqua calda per me. Le sue mani sul mio corpo furono parole d’amore.

Quando, dopo giorni passati sul terrazzo di casa a raccontarci, la salutai, un velo di tristezza annebbiò il suo sguardo: sapeva che non mi avrebbe più visto.

Ero mamma e dovevo prendermi cura di Elsa. Cominciai a produrre biscotti e a venderli.

Volli anche riprendere la scuola. Ma la scuola non voleva i bimbi in classe e allora concorderete con me che non si può imparare ciò che ti insegnano se sai che tua figlia è fuori, sulla strada, e nessuno si prende cura di lei.
Rinunciai alla scuola e la mia istruzione rimase un po’ zoppicante!

E arriviamo al 2006: volevo una casa mia! Non volevo permettere più a nessuno di spostarmi come meglio gli aggradava. Le pareti della mia casa sarebbero state la mia protezione.

2006, 2007, 2008: ogni anno con i soldi risparmiati compravo pali per la mia casa.

2009: avevo tutti i pali e i soldi per farmi costruire la casa.

Ma l’invidia è una brutta cosa sia per chi la prova sia per chi la subisce: la proprietaria del ristorante dove lavoravo non gradì che io avessi una casa mia e mi licenziò.

Perciò i soldi finirono e la casa restò senza porta… e forse è per questo che nella mia vita entrò un altro uomo.
Lui mi vide mentre andavo a prendere l’acqua al pozzo e mi fece sapere da un’amica che gli piacevo molto.

Io avevo paura: chi si è scottato col fuoco impara a soffiare anche sul ghiaccio… però avevo anche voglia di amare e di essere amata.

Scoprii troppo tardi che era sposato, nel frattempo lui aveva saputo tessere un grande inganno a sua moglie e a me.
Ignare l’una della presenza dell’altra, ci mosse come due pedine, così come troppo spesso gli uomini da noi sanno fare.

Quando restai incinta mi portò con lui a Pemba, dove si era nel frattempo trasferito con la moglie.

Incinta e con una bambina piccina mi era difficile lavorare, quella di seguirlo fu una scelta necessaria.

A Pemba non ero sola, c’erano mia sorella e le mie cugine.
Lui aveva affittato una casa per me, si preoccupava che non mi mancasse il cibo ma di notte tornava a dormire da sua moglie.

Mi faceva male al cuore questa sua assenza.
E così do un tempo alla mia sofferenza… me ne sarei andata quando la mia piccola avrebbe iniziato a camminare.
Gaudenzia camminò a 7 mesi!

Tornammo insieme, io e lei, a Palma.
Rimetto a posto la casa, che ora ha tutte le porte, e ricomincio a lavorare.
Sono riuscita anche a costruirmi un piccolo locale dove vendo ghiaccioli, che faccio io, ai bambini.

Ringrazio Dio di essere arrivata fino ad oggi, di aver saputo crescere da sola le mie figlie, di essere riuscita sempre ad inventarmi un lavoro.

Sì, a me è piaciuto di più lavorare che amare… la mia anima dell’amore è stata sporcata troppo e l’anima non è come il corpo, non la lavi con il sapone!

Se penso alla mia vita adesso mi sembra di camminare su un terreno bagnato, cerco di immaginarmi un futuro ma faccio fatica.

Però so che io adesso sono qui, ad Alcatraz.

Io non avevo mai pensato di arrivare in questa terra: un cammino mi si è aperto.

Non è mai tardi per i sogni, anche per quelli che sembrano impossibili, e il teatro è il mio sogno.

I sogni sono come il vento che gonfia le vele della barca e le fa prendere il largo… e io porto il nome di una barca.

Obrigada

Safina